Cosa Muoverà i Mercati: Dati Lavoro USA e Nuove Mosse della BCE

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La Banca Centrale Americana è sempre più politicizzata: e questo è un problema!

Ci sono momenti in cui basta un sussurro per far tremare i mercati. Ieri, è bastata una voce – non confermata, né credibile – per provocare un piccolo terremoto finanziario: “Trump pronto a licenziare Jerome Powell entro il 4 agosto.” Nessuna prova, solo un’eco che si è propagata alla velocità dei titoli in discesa e di un dollaro in picchiata. Poi, come spesso accade in questi teatrini, il dietrofront: lo stesso Trump, con il suo stile da commedia presidenziale, ha smentito. Ma il messaggio, al di là della smentita, resta limpido: la Federal Reserve è entrata nel vivo della campagna elettorale. E per chi osserva i mercati con lente macroeconomica, questo è un segnale preoccupante. Perché quando una banca centrale comincia a sembrare un’agenzia governativa sotto pressione politica, ogni mossa sui tassi diventa una questione di fiducia – e non più di dati.

La tensione, in realtà, era già nell’aria da ore. Il nuovo report sull’inflazione al consumo (CPI) è uscito in linea con le attese. Anzi, il “core” – quello che esclude le voci più volatili – ha mostrato una discesa confortante. Eppure, i mercati hanno reagito eliminando troppo in fretta le attese di tagli. La probabilità di una riduzione dei tassi a settembre è scesa sotto il 56%. Un’inversione rapida, forse troppo, se si considera che la Fed prevede ancora due tagli nel proprio “dot plot” e un’inflazione PCE core al 3,1% per fine anno.

Ma il cuore del problema non è solo nei numeri. È nei nomi. Perché quando, nei circoli vicini all’ex Presidente, iniziano a circolare figure come Christopher Waller o Kevin Hassett come possibili successori di Powell, il quadro cambia. Waller è noto per una visione decisamente più accomodante. La sua nomina aprirebbe la strada a un ciclo di tagli aggressivi, forse già nei primi mesi del 2025. E qui, la domanda non è più “quando?” ma “quanto politicamente orientata sarà la nuova Fed?”.

Perché la vera posta in gioco, oggi, è l’indipendenza della banca centrale americana. Una Fed percepita come strumento della Casa Bianca – in stile Erdogan in Turchia o Abe nel Giappone pre-Abenomics – non è solo un rischio reputazionale. È un rischio sistemico. Per il dollaro. Per i Treasury. E per la fiducia globale nel sistema finanziario USA.

E infatti i mercati stanno iniziando ad aggiustarsi. Un mix come quello che si sta delineando – Fed politicizzata, disinflazione nei servizi, prospettiva di tagli futuri e incertezza politica – storicamente non gioca a favore del biglietto verde. Il dollaro si indebolisce. E quando il dollaro traballa, alcuni asset si rafforzano per definizione: Bitcoin, oro digitale per chi cerca riparo; criptovalute, galvanizzate da una nuova ondata di entusiasmo retail e dalla legislazione imminente sugli stablecoin; titoli di Stato a lunga scadenza, che beneficiano della discesa dei tassi attesi; persino l’equity, che si comporta spesso come un rifugio nominale in tempi di svalutazione.

Anche i dati alla produzione confermano la narrativa. Il Producer Price Index (PPI), che fotografa i prezzi a monte della filiera, mostra un quadro rassicurante: tariffe aeree in discesa, spese sanitarie sotto controllo. E soprattutto, il PPI esclude le importazioni. Non ci sono effetti tariffari a gonfiare i numeri. Questo significa che l’inflazione domestica, quella vera, quella “core”, è debole. Se non ci fossero i dazi minacciati da Trump all’orizzonte, la Fed probabilmente starebbe già tagliando.

E allora perché il mercato resta nervoso? Perché vive un paradosso. Da un lato, l’indice delle sorprese macroeconomiche statunitensi – che misura quanto i dati battono o deludono le attese – è tornato in territorio positivo. I dati sorprendono al rialzo. Dall’altro, il momentum tecnico sull’USD resta forte. In un contesto macro così tonico, è difficile che gli operatori inizino a vendere dollari in modo aggressivo. Ma in profondità, sotto la superficie, la situazione è instabile. Perché la politica è diventata tossica. E la Fed è finita in trappola.

Powell resiste. Trump attacca. I dati non giustificano ancora una svolta. Ma la narrativa sui dazi, che gonfia aspettative e paure senza produrre ancora inflazione, è un rompicapo. E nel frattempo, a Est, qualcosa si muove. Nvidia ha annunciato la possibilità di riprendere, almeno in parte, l’export di chip verso la Cina. Un segnale di tregua tecnologica. Trump, impegnato a mostrare forza, sa però di aver bisogno di stabilità con Pechino su almeno due fronti cruciali: la Russia, e le terre rare, fondamentali per le catene industriali occidentali. Risultato? Il tech cinese è in rally. Silenzioso, ma consistente. E potrebbe non essere finita qui.

Il quadro finale è quello di una reflazione lenta ma persistente. I prezzi crescono, ma non troppo. L’economia regge, ma senza surriscaldarsi. Le politiche monetarie restano ferme, quasi immobili. Ma l’aria è satura di tensione. Non è ancora tempo di panico. Ma è tempo di attenzione. Perché quando i banchieri centrali diventano attori politici, e i tweet muovono i tassi più dei dati, allora il rischio più grande non è una recessione. È perdere la bussola.

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MARCO CASARIO

Gli italiani sono tra i popoli più ignoranti in ambito finanziario.

Non per scelta ma perché nessuno lo ha mai insegnato. Il mio scopo è quello di educare ed informare le persone in ambito economico e finanziario. Perché se non ti preoccupi dell'economia e della finanza, loro si occuperanno di te.

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