
L’Oro sta urlando, Wall Street fa finta di non sentire
L’oro ha superato i 3.500 $/oz, rompendo un muro psicologico che per mesi sembrava invalicabile. Non è solo un record tecnico: è un segnale. La storia ci insegna che l’oro funziona come un sismografo. Non reagisce alle notizie, ma le anticipa. Nel 2019 iniziò a

La FED potrebbe fare un ERRORE Enorme: come INVESTIRE per approfittarne
La settimana sui mercati finanziari si apre con titoli allarmistici sul mercato del lavoro USA, ma come spesso accade, i numeri non dicono tutta la verità. Anzi, nascondono un’opportunità. Non lasciatevi ingannare dal panico: i dati più affidabili e difficili da manipolare ci raccontano una

Comprare casa o stare in affitto: cosa conviene ?
Quando si parla di immobiliare, le opinioni si dividono come il Mar Rosso. C’è chi vede la casa come il rifugio sicuro, il bene che “non tradisce mai”, e chi la considera una zavorra, un investimento poco liquido e costoso da mantenere. La verità è

Il Ponte invisibile tra i dazi di Trump e l’Italia
Quale è il prezzo di un dazio? In teoria, il 15% in più sul prezzo finale. In pratica, la tenuta di intere filiere industriali. E in certi casi, l’equivalente di un Ponte sullo Stretto… ogni anno. Sì, perché i nuovi dazi americani imposti dall’amministrazione Trump

La resa dei conti sui DAZI: il piano ambizioso degli USA
L’America ha alzato i dazi. Di nuovo. E stavolta non di poco. Nel 2024, la tariffa media sulle importazioni era appena sopra il 2%. Oggi, siamo già oltre il 16% – il livello più alto dai tempi della Grande Depressione. E il bello, o il

La Forza dell’EURO comincia a preoccupare la BCE
Giovedì la Banca Centrale Europea seguirà il copione. Almeno, non ufficialmente. I mercati si aspettano una riunione tranquilla, con i tassi d’interesse fermi dove sono. Eppure, sotto la superficie, c’è fermento. Il motivo? L’euro, che continua a rafforzarsi e potrebbe presto superare quella soglia magica
La Banca Centrale Americana è sempre più politicizzata: e questo è un problema!
Ci sono momenti in cui basta un sussurro per far tremare i mercati. Ieri, è bastata una voce – non confermata, né credibile – per provocare un piccolo terremoto finanziario: “Trump pronto a licenziare Jerome Powell entro il 4 agosto.” Nessuna prova, solo un’eco che si è propagata alla velocità dei titoli in discesa e di un dollaro in picchiata. Poi, come spesso accade in questi teatrini, il dietrofront: lo stesso Trump, con il suo stile da commedia presidenziale, ha smentito. Ma il messaggio, al di là della smentita, resta limpido: la Federal Reserve è entrata nel vivo della campagna elettorale. E per chi osserva i mercati con lente macroeconomica, questo è un segnale preoccupante. Perché quando una banca centrale comincia a sembrare un’agenzia governativa sotto pressione politica, ogni mossa sui tassi diventa una questione di fiducia – e non più di dati.
La tensione, in realtà, era già nell’aria da ore. Il nuovo report sull’inflazione al consumo (CPI) è uscito in linea con le attese. Anzi, il “core” – quello che esclude le voci più volatili – ha mostrato una discesa confortante. Eppure, i mercati hanno reagito eliminando troppo in fretta le attese di tagli. La probabilità di una riduzione dei tassi a settembre è scesa sotto il 56%. Un’inversione rapida, forse troppo, se si considera che la Fed prevede ancora due tagli nel proprio “dot plot” e un’inflazione PCE core al 3,1% per fine anno.
Ma il cuore del problema non è solo nei numeri. È nei nomi. Perché quando, nei circoli vicini all’ex Presidente, iniziano a circolare figure come Christopher Waller o Kevin Hassett come possibili successori di Powell, il quadro cambia. Waller è noto per una visione decisamente più accomodante. La sua nomina aprirebbe la strada a un ciclo di tagli aggressivi, forse già nei primi mesi del 2025. E qui, la domanda non è più “quando?” ma “quanto politicamente orientata sarà la nuova Fed?”.
Perché la vera posta in gioco, oggi, è l’indipendenza della banca centrale americana. Una Fed percepita come strumento della Casa Bianca – in stile Erdogan in Turchia o Abe nel Giappone pre-Abenomics – non è solo un rischio reputazionale. È un rischio sistemico. Per il dollaro. Per i Treasury. E per la fiducia globale nel sistema finanziario USA.
E infatti i mercati stanno iniziando ad aggiustarsi. Un mix come quello che si sta delineando – Fed politicizzata, disinflazione nei servizi, prospettiva di tagli futuri e incertezza politica – storicamente non gioca a favore del biglietto verde. Il dollaro si indebolisce. E quando il dollaro traballa, alcuni asset si rafforzano per definizione: Bitcoin, oro digitale per chi cerca riparo; criptovalute, galvanizzate da una nuova ondata di entusiasmo retail e dalla legislazione imminente sugli stablecoin; titoli di Stato a lunga scadenza, che beneficiano della discesa dei tassi attesi; persino l’equity, che si comporta spesso come un rifugio nominale in tempi di svalutazione.
Anche i dati alla produzione confermano la narrativa. Il Producer Price Index (PPI), che fotografa i prezzi a monte della filiera, mostra un quadro rassicurante: tariffe aeree in discesa, spese sanitarie sotto controllo. E soprattutto, il PPI esclude le importazioni. Non ci sono effetti tariffari a gonfiare i numeri. Questo significa che l’inflazione domestica, quella vera, quella “core”, è debole. Se non ci fossero i dazi minacciati da Trump all’orizzonte, la Fed probabilmente starebbe già tagliando.
E allora perché il mercato resta nervoso? Perché vive un paradosso. Da un lato, l’indice delle sorprese macroeconomiche statunitensi – che misura quanto i dati battono o deludono le attese – è tornato in territorio positivo. I dati sorprendono al rialzo. Dall’altro, il momentum tecnico sull’USD resta forte. In un contesto macro così tonico, è difficile che gli operatori inizino a vendere dollari in modo aggressivo. Ma in profondità, sotto la superficie, la situazione è instabile. Perché la politica è diventata tossica. E la Fed è finita in trappola.
Powell resiste. Trump attacca. I dati non giustificano ancora una svolta. Ma la narrativa sui dazi, che gonfia aspettative e paure senza produrre ancora inflazione, è un rompicapo. E nel frattempo, a Est, qualcosa si muove. Nvidia ha annunciato la possibilità di riprendere, almeno in parte, l’export di chip verso la Cina. Un segnale di tregua tecnologica. Trump, impegnato a mostrare forza, sa però di aver bisogno di stabilità con Pechino su almeno due fronti cruciali: la Russia, e le terre rare, fondamentali per le catene industriali occidentali. Risultato? Il tech cinese è in rally. Silenzioso, ma consistente. E potrebbe non essere finita qui.
Il quadro finale è quello di una reflazione lenta ma persistente. I prezzi crescono, ma non troppo. L’economia regge, ma senza surriscaldarsi. Le politiche monetarie restano ferme, quasi immobili. Ma l’aria è satura di tensione. Non è ancora tempo di panico. Ma è tempo di attenzione. Perché quando i banchieri centrali diventano attori politici, e i tweet muovono i tassi più dei dati, allora il rischio più grande non è una recessione. È perdere la bussola.
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