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Le nuove tariffe del 2 aprile
Il 2 aprile la Casa Bianca ha svelato un’attesa politica tariffaria “completa”, che prevede:
- Una tariffa minima del 10% per i Paesi fuori da Canada e Messico.
- Delle tariffe più alte per circa 60 Paesi.
Bisogna ricordare che questi dazi si aggiungono a una serie di misure già introdotte (o annunciate) nel corso del 2025. Da qui la necessità di distinguere i due scenari:
- Scenario A: effetti economici e fiscali della sola manovra del 2 aprile (senza considerare altre tariffe né eventuali ritorsioni).
- Scenario B: effetti economici e fiscali di tutte le tariffe varate nel 2025, incluse quelle del 2 aprile e incorporando le ritorsioni internazionali.
I dati che seguono derivano dalle analisi di “The Budget Lab”, un centro di ricerca e analisi che si è divertito a impilare una serie di dazi in un modello e valutarne l’impatto cumulativo. Vediamo insieme di cosa si tratta, ma soprattutto cerchiamo di capire come questi numeri si traducono in conseguenze pratiche.
Le altre tariffe già operative nel 2025
Prima di scoprire nel dettaglio la manovra del 2 aprile, vale la pena riepilogare (e sì, ce ne sono parecchie) le tariffe già in vigore nei primi mesi del 2025:
- 20% di dazio su tutte le importazioni cinesi (in vigore dal 4 febbraio, poi aumentato il 4 marzo).
- 10% di dazio su potassio ed energia dal Canada (efficace dal 2 aprile).
- 25% di dazio su tutte le importazioni dal Messico e sul resto delle importazioni canadesi (dal 4 marzo).
- 25% di dazio su tutte le automobili, con un’esenzione per la componente prodotta negli USA (entrata in vigore il 3 aprile).
- 25% di dazio su acciaio e alluminio (dal 12 marzo).
Scenario A: effetti della sola manovra del 2 aprile
Immaginiamo per un attimo che prima del 2 aprile non fosse successo niente. Non c’erano i dazi sulla Cina, non c’erano quelli sul Messico, ecc. (sì, lo so, è un esercizio un po’ teorico ma aiuta a capire l’impatto di questa singola mossa).
- Aumento medio delle tariffe: +10% per i Paesi non NAFTA (quindi esclusi Canada e Messico), con picchi più alti per quei famosi 60 Paesi “speciali”. TBL calcola che, in media, l’aliquota tariffaria effettiva (quindi la “vera” tassa sull’import) salga di circa 11,5 punti percentuali.
- Impatto sui prezzi al consumo: secondo TBL, il prezzo medio dei beni al consumo negli Stati Uniti sale dell’1,3% nel breve periodo. In assenza di reazione da parte della Federal Reserve, le famiglie americane subirebbero un calo di potere d’acquisto quantificato in circa 2.100 dollari per nucleo familiare.
- Effetti sul PIL (breve e lungo periodo): nel 2025 la crescita del PIL reale negli USA sarebbe -0,5 punti percentuali rispetto allo scenario in cui questa tariffa non esiste. Nel 2026 la crescita sarebbe ancora più bassa di circa -0,1 pp. Nel lungo termine, anche dopo che le imprese si sono riorganizzate, la dimensione totale dell’economia USA risulterebbe comunque diminuita dello 0,4% rispetto alla base, vale a dire 100 miliardi di dollari in meno ogni anno (sempre a valore 2024).
- Fiscalità: se le tariffe del 2 aprile rimanessero intatte fino al 2035, porterebbero nelle casse statunitensi 1.400 miliardi di dollari. Tuttavia, a causa del calo di reddito e attività economica, ci sarebbero effetti “dinamici” negativi sulle entrate fiscali di circa –366 miliardi.
Scenario B: gli effetti di tutte le tariffe 2025
Ora passiamo alla situazione concreta, perché in realtà da inizio anno si sono accumulati una montagna di nuovi dazi.
- Aumento medio delle tariffe totali: si arriva a un +20 punti percentuali (quasi il doppio del singolo +11,5%).
- Impatto sui prezzi al consumo: la stangata diventa circa +2,3% sul livello generale dei prezzi. Di conseguenza, per la famiglia media siamo a -3.800 dollari annui di potere d’acquisto.
- Effetti sul PIL: nel 2025 la crescita del PIL reale sarebbe -0,9 punti percentuali rispetto allo scenario “no tariff”; e poi un -0,1 pp nel 2026, con una riduzione permanente del PIL di -0,6% (160 miliardi di dollari annui). Le esportazioni, addirittura, nel lungo termine risulterebbero -18,1%.
- Fiscalità: cumulando il gettito di tutti i dazi introdotti nel 2025, si arriva a 3.100 miliardi di dollari su base decennale. Ma, ancora, gli effetti “dinamici” frenano di -582 miliardi.
In definitiva: sì, più dazi portano più soldi nelle casse del governo, ma riducono l’economia nel suo complesso, perché scoraggiano gli scambi, aumentano i costi di produzione (a volte anche per le stesse aziende statunitensi) e diminuiscono i redditi e i consumi. In altre parole, ti entra qualche miliardo extra, ma ti bruci parte del potenziale economico.
La tariffa più alta dal ‘900
Nonostante tutti i discorsi su protezionismo e liberalizzazione, gli Stati Uniti avevano già una storia di tariffe piuttosto alte, specialmente in epoche storiche lontane (pensate all’inizio del 1900 o alla Grande Depressione). Solo la manovra del 2 aprile porterebbe l’aliquota tariffaria media USA a livelli mai visti dal 1938. Con tutte le tariffe del 2025 insieme, si arriverebbe addirittura a un’aliquota media del 22,5%, la più elevata dal 1909. È come se gli Stati Uniti stessero facendo marcia indietro rispetto a un secolo di progressivo abbattimento delle barriere commerciali.
Effetto globale delle tariffe: ecco chi vince e chi perde
Ovviamente, quando gli USA impongono dazi, gli altri Paesi non restano a guardare. Anzi, abbiamo già visto come Cina, Canada e altri attori abbiano messo in campo contromisure. Ecco i dati di TBL:
Scenario A:
- Impatto sul resto del mondo moderato, perché Canada e Messico (grandi partner commerciali degli USA) sono esclusi dalla nuova tariffa e anzi potrebbero “guadagnare” quote di mercato.
- La Cina si contrae di un leggero -0,2% nel lungo periodo (calcolato sul PIL), il Regno Unito addirittura ottiene uno spiraglio di +0,1%.
Scenario B:
- Il Canada subisce un colpo di -2,1% del proprio PIL nel lungo termine.
- Il Messico, sorprendentemente, ne esce leggermente in crescita (+0,06%), probabilmente perché alcune produzioni si sono trasferite lì in risposta ai dazi su altri Paesi, compensando il costo dei dazi.
- L’Unione Europea e il Regno Unito, curiosamente, ottengono mini-vantaggi di circa +0,1% e +0,2%.
In generale, la logica è che quando un Paese alza i muri, alcuni partner commerciali ne soffrono, altri ne approfittano e la “mappa” del commercio mondiale si ridisegna.
Distribuzione dell’impatto sulle famiglie
Un altro aspetto poco discusso ma cruciale riguarda la distribuzione dell’onere dei dazi. I dazi fanno salire i prezzi e, come spiega TBL:
- I nuclei a basso reddito subiscono proporzionalmente l’effetto più rilevante (in termini di percentuale del proprio reddito).
- Chi ha i redditi più alti spende di più e finisce per pagare più dollari di dazio.
- Nel breve periodo, solo la tariffa del 2 aprile incide in modo 2,6 volte più pesante (in % di reddito) sul secondo decile di reddito rispetto al decile più ricco.
- Considerando tutte le tariffe 2025, un nucleo del secondo decile vede il proprio reddito disponibile abbassarsi di un 4% contro l’1,6% del top decile.
- Con tutte le tariffe 2025, una famiglia nella fascia medio-bassa potrebbe spendere 1.700 dollari annui in più (senza beneficiarne in alcun modo), mentre chi si trova nel ceto medio spende 3.000 dollari in più e chi è in cima alla scala reddituale può arrivare a pagare oltre 8.000 dollari extra.
Quali prodotti aumentano di prezzo?
Secondo l’analisi, questi dazi non incidono su tutti i beni allo stesso modo. In cima alla lista dei rincari ci sono:
- Abbigliamento e tessili: +8% con la sola tariffa del 2 aprile, e addirittura +17% considerando l’insieme delle tariffe 2025.
- Cibo: +1,6% per effetto del 2 aprile e +2,8% sommando tutti i dazi. Alcune categorie, come frutta e verdura fresca, potrebbero subire rincari del 2,2% (solo 2 aprile) e 4% (tutti i dazi 2025).
- Automobili: non tanto influenzate dal 2 aprile di per sé, ma nel quadro generale 2025 si stima un +8,4%, cioè l’equivalente di circa 4.000 dollari extra sul prezzo di un’auto nuova.
Perché tutto questo dovrebbe interessarci?
Ti starai chiedendo: “Okay, va bene, ma io vivo in Europa (o in un qualsiasi altro Paese). Che mi cambia se gli Stati Uniti alzano i muri sulle importazioni?” Beh, ecco perché tutto ciò riguarda anche te:
- Ripple effect: l’economia statunitense è enorme e fortemente intrecciata con la catena di valore globale. Se gli Stati Uniti rallentano, possono creare scossoni anche altrove, soprattutto in settori specifici (acciaio, automotive, high-tech, agroalimentare, ecc.).
- Possibili ritorsioni: quando un Paese (specie se è una superpotenza economica) introduce dazi, è frequente che altri reagiscano con misure simili per difendere le proprie industrie o equilibrare la bilancia commerciale. Questo può cambiare le rotte del commercio e magari aprire o chiudere opportunità per esportatori di altri Paesi.
- Precedenti storici: la storia ci insegna che guerre commerciali prolungate e protezionismi rigidi hanno spesso preceduto o accompagnato momenti di forte instabilità economica e politica. Se i dazi si alzano (o restano alti) a lungo, l’intero sistema rischia di avvitarsi su se stesso.
- Impatto sull’innovazione: in un mondo sempre più globalizzato, alzare barriere può frenare la concorrenza e ridurre l’incentivo a investire in nuovi prodotti e processi.
Conclusione
Il 2 aprile ha segnato un “salto di qualità” nella strategia tariffaria di Washington, ma non è detto che sia la parola definitiva: potrebbero emergere esenzioni, accordi, o nuove tensioni (basti pensare alla serie continua di modifiche alle tariffe cinesi da febbraio a marzo).
Dal punto di vista economico, i numeri indicano che aumentare le barriere commerciali comporta un prezzo da pagare: rallentamento del PIL, riduzione della spesa delle famiglie, abbassamento del reddito disponibile, effetti regressivi sui più poveri.
Dal punto di vista geopolitico, la Casa Bianca appare decisa a sfruttare i dazi come leva negoziale: “Se vuoi vendere nel mio mercato, o ti sposti qui con la produzione, o paghi”. Resta però da capire se questa strategia funzionerà nel lungo termine. Alcuni Paesi reagiranno tentando di esportare di più in altre regioni, o spostando le catene di fornitura altrove, mentre gli USA stessi rischiano di perdere la reputazione di “campioni del libero mercato”.
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