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Cosa significa avere un deficit commerciale
In parole semplici, un Paese ha un deficit commerciale quando importa più beni e servizi di quanti ne esporti. In termini pratici, significa che più soldi escono dal Paese (per comprare prodotti esteri) rispetto a quelli che entrano (grazie alle vendite all’estero). Il contrario è il surplus commerciale: quando un Paese esporta più di quanto importi.
L’anno scorso gli Stati Uniti hanno registrato un deficit commerciale di 918,4 miliardi di dollari, in aumento rispetto ai 784,9 miliardi del 2023. Solo nel mese di febbraio 2025, il deficit ha toccato i 122,7 miliardi secondo i dati ufficiali diffusi dal Bureau of Economic Analysis (BEA) e dall’U.S. Census Bureau.
Perché Trump ce l’ha con il deficit commerciale USA?
Donald Trump non ha mai fatto mistero della sua antipatia per il deficit commerciale. Secondo la sua visione, un Paese forte dovrebbe “vincere” negli scambi internazionali, esportando molto più di quanto importa.
Per Trump il deficit è la prova che altri Paesi “imbrogliano” o approfittano degli Stati Uniti con pratiche sleali. E’ per questo che il 2 aprile 2025 ha annunciato una nuova ondata di dazi “reciproci”, con tariffe altissime (anche del 145%) contro prodotti provenienti da Cina, Messico, Canada e decine di altri Paesi.
Nella dichiarazione ufficiale della Casa Bianca si legge: “Il deficit ha svuotato la nostra base manifatturiera, scoraggiato gli investimenti nella produzione interna avanzata, indebolito le catene di approvvigionamento critiche e reso la nostra difesa industriale dipendente da avversari stranieri”.
Secondo Trump, solo con dazi pesanti si potrà spingere i consumatori americani a comprare prodotti Made in USA e rilanciare l’industria nazionale.
I dazi funzionano davvero?
Teoricamente, i dazi rendono i prodotti esteri più costosi e quindi meno appetibili, incentivando i consumatori a scegliere quelli nazionali. Ma la realtà è più complessa.
Molte aziende statunitensi si affidano a materie prime o componenti importati per produrre i propri beni. Se questi costi aumentano, anche i prodotti finali diventano più cari. Alla fine, è il consumatore americano che paga il conto.
In più, i Paesi colpiti dalle tariffe tendono a reagire con dazi propri, penalizzando le esportazioni americane. Il rischio? Una vera e propria guerra commerciale, dove tutti perdono.
Cosa dicono gli economisti
La maggior parte degli economisti non considera il deficit commerciale un problema in sé. Anzi, molti lo vedono come un segnale della forza dell’economia americana.
Gli Stati Uniti sono un Paese a forte consumo interno: la gente spende molto e le aziende offrono una varietà di beni provenienti da tutto il mondo. Importare non significa smettere di produrre, ma semplicemente diversificare le fonti.
Gli USA restano tra i principali esportatori mondiali, soprattutto nei servizi: dalla finanza ai contenuti digitali, dalla proprietà intellettuale all’istruzione, fino al turismo e alle licenze multimediali. Nel 2025 il surplus dei servizi è stato di 24,3 miliardi di dollari nel solo mese di febbraio. Questo aiuta a bilanciare in parte il deficit dei beni, che nello stesso periodo era di 147 miliardi.
Un deficit, tanti partner
Il deficit commerciale USA viene spesso presentato come un numero unico, ma in realtà cambia in base al partner. Ecco alcune cifre recenti, tratte dal rapporto del BEA aggiornato ad aprile 2025:
I Paesi con cui gli USA hanno un surplus (cioè esportano più di quanto importano):
- Sud e Centro America: +4,8 miliardi
- Paesi Bassi: +4,1 miliardi
- Regno Unito: +3,4 miliardi
- Hong Kong: +2,4 miliardi
- Belgio, Brasile, Arabia Saudita: surplus più contenuti
I Paesi con cui gli USA hanno un forte deficit:
- Unione Europea: -30,9 miliardi
- Cina: -26,6 miliardi
- Svizzera: -18,8 miliardi
- Messico: -16,8 miliardi
- Irlanda: -14 miliardi
- Vietnam: -12,4 miliardi
- Italia: -5,1 miliardi
Ecco perché Trump prende di mira partner commerciali come Cina, Messico, Canada e Germania. Ma i dazi generalizzati rischiano di danneggiare anche Paesi con cui gli Stati Uniti hanno buoni rapporti o addirittura un surplus.
Il legame tra deficit commerciale e debito pubblico
Trump sostiene spesso che il deficit commerciale USA alimenta il debito pubblico. In realtà le due cose sono separate, anche se collegate indirettamente.
Il debito pubblico nasce dal fatto che lo Stato americano spende più di quanto incassa attraverso le tasse. Quando le entrate non bastano, si ricorre al debito, emettendo titoli del Tesoro. Il totale oggi supera i 36.200 miliardi di dollari.
Il deficit commerciale, invece, riguarda gli scambi con l’estero. Ma qui entra in gioco un meccanismo interessante: quando gli USA importano più di quanto esportano, molti dollari finiscono all’estero. Quei dollari vengono spesso reinvestiti dagli Stati stranieri (soprattutto banche centrali) in titoli di Stato americani. In pratica, il deficit commerciale può facilitare il finanziamento del debito pubblico, anche se non lo causa direttamente.
Quindi il deficit commerciale è un problema oppure no?
Dipende. Un deficit commerciale non è di per sé negativo. Può essere sintomo di una forte domanda interna, di consumatori attivi e di un’economia dinamica. Diventa un problema se è accompagnato da:
- Debolezza industriale interna, cioè perdita di capacità produttiva e occupazionale
- Dipendenza da filiere estere critiche, ad esempio per microchip o materiali strategici
- Eccessiva esposizione ai debiti pubblici esteri, se i capitali stranieri smettono di finanziare il debito USA
Per ora, però, gli Stati Uniti restano una delle economie più solide e attrattive al mondo. Gli investitori continuano a comprare Treasury bond e il dollaro resta la valuta di riferimento nei mercati internazionali.
In sintesi
Il deficit commerciale degli USA è un tema complesso, spesso politicizzato. Trump lo utilizza per rilanciare un’agenda economica nazionalista, puntando tutto su dazi e protezionismo. Ma la realtà dei mercati globali è molto più articolata: oggi le catene di approvvigionamento attraversano decine di Paesi e nessun Paese è davvero “indipendente”.
Il vero punto non è azzerare il deficit, ma costruire una strategia industriale moderna, investire in tecnologie avanzate, rafforzare l’istruzione e garantire filiere più resilienti. Il protezionismo può funzionare nel breve, ma il futuro si gioca sull’innovazione, non sulle barriere.
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