
CPI USA: l’inflazione non è morta, sta cambiando volto !
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Cosa fa muovere Wall Street e la Borsa Europea? Sintesi Macro – Settimana 13

Wall Street si avvia a chiudere il trimestre con il fiato corto, lasciandosi alle spalle settimane di scossoni e incertezze. L’S&P 500 sta per mettere a segno la sua peggiore performance dal 2022, con un calo vicino al 5%. A trascinare in basso l’umore dei mercati non è stata una sola notizia, ma un cocktail amaro di dati macro, tensioni politiche e segnali sempre più chiari che l’equilibrio su cui si reggeva la fiducia degli investitori sta iniziando a incrinarsi.
Nel frattempo, l’oro corre: +17% da inizio anno, miglior risultato trimestrale da quasi 40 anni. E non è un caso. In un clima dove il dollaro si indebolisce, Bitcoin perde colpi e i rendimenti dei Treasury scendono, il metallo giallo la fa da protagonista. Gli ETF collegati all’oro (GLD, GLDM e IAU) hanno attirato oltre 12 miliardi di dollari negli ultimi due mesi. Quando il terreno inizia a tremare, gli investitori si rifugiano dove sentono più solidità.
D’altronde, il quadro macroeconomico negli Stati Uniti lancia segnali poco rassicuranti. I consumatori sembrano aver perso fiducia, mentre le aspettative di inflazione hanno toccato livelli che non si vedevano dal 1992. A questo si aggiunge una frenata nei consumi accompagnata da un’accelerazione dei prezzi, un’accoppiata che inizia a far intravedere i primi contorni di un possibile scenario stagflattivo. Non siamo ancora a quel punto, ma se la traiettoria dovesse confermarsi, il sentiment degli investitori rischia di peggiorare ancora.
L’agenda politica, poi, non aiuta. L’annuncio di nuovi dazi da parte dell’amministrazione americana aggiunge benzina su un fuoco che già brucia. Il Nasdaq, ad esempio, ha chiuso una settimana difficile con un -2,6%, e il mese di marzo è stato particolarmente amaro: cinque ribassi mensili superiori al 2%, una frequenza che non si vedeva dai giorni bui del 2022. I cosiddetti “Magnifici Sette”, i titoli delle big tech che hanno trainato i listini per mesi, si avviano a chiudere il peggior primo trimestre dell’ultimo decennio.
Ma non tutto si muove nella stessa direzione. L’uscita massiccia dai fondi azionari statunitensi fa da contraltare a un crescente interesse verso i mercati europei, che secondo i dati EPFR citati da Bank of America, continuano ad attirare capitali.
Il segnale forte di un cambio di narrativa arriva dal mondo delle strategie multi-asset. L’indice S&P Multi-Asset Risk Parity, che replica modelli di allocazione diversificata, ha battuto l’S&P 500 di oltre 7 punti percentuali in tre mesi. Un risultato che non si vedeva dal 2018. Puntare tutto su pochi nomi noti non paga più. Né per i trader retail né per i professionisti.
Quello che sta emergendo è un mercato più selettivo, meno disposto a premiare le narrative semplici. Le tensioni geopolitiche, l’incertezza sulle prossime mosse delle banche centrali e l’ombra lunga dell’inflazione creano un mix complicato.
Auto, parte la guerra dei dazi: +25% per chi non produce in USA
Donald Trump ha firmato un nuovo proclama che impone un dazio del 25% su tutte le auto non prodotte negli Stati Uniti. L’annuncio è arrivato dalla Casa Bianca ed è stato accompagnato da un messaggio chiaro: chi non costruisce in America, pagherà caro l’accesso al mercato americano. Il presidente ha anche minacciato misure ancora più dure contro Unione Europea e Canada se dovessero coordinarsi per “fare danni economici” agli Stati Uniti.
La misura entra in vigore il 2 aprile, inizialmente colpendo i veicoli completi, ma dal 3 maggio si estenderà anche ai componenti chiave come motori, trasmissioni e sistemi elettrici. E secondo l’amministrazione, il perimetro dei prodotti colpiti potrà allargarsi ulteriormente, se necessario.
Nessuna apertura a negoziati o eccezioni: i dazi sono definiti “permanenti” e andranno ad aggiungersi a quelli già esistenti. La Casa Bianca prevede un incasso di 100 miliardi di dollari all’anno grazie a questa nuova ondata di tariffe.
Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. L’UE ha avvertito che difenderà i suoi interessi economici e il Canada ha bollato la misura come una “violazione dell’accordo USMCA”. Il premier dell’Ontario ha chiesto esplicitamente al governo federale di colpire le auto americane, sottolineando che la maggior parte dei veicoli venduti in Canada viene proprio dagli USA. Anche Giappone e Corea del Sud stanno valutando contromisure.
I titoli di Toyota, Mercedes, Porsche, Stellantis e altri produttori hanno registrato ribassi. Anche Ford e GM hanno sofferto, mentre Tesla è tra i pochi a guadagnarci: produce solo negli USA e si posiziona come vincitore potenziale della stretta.
L’industria auto americana è altamente integrata con Messico e Canada e molti modelli venduti negli USA sono in parte (o interamente) prodotti all’estero. Anche Ford, che produce una quota maggiore sul suolo americano rispetto a GM o Stellantis, costruisce in Messico modelli come il Bronco Sport e il Maverick.
Gli analisti stimano che l’effetto sui prezzi sarà pesante: fino a 4.000 dollari in più per un crossover, addirittura 12.000 in più per un’auto elettrica. Secondo Trump, però, il costo verrà compensato dal ritorno delle fabbriche sul suolo americano. Ha citato come esempio Hyundai, che ha annunciato un piano di espansione da 21 miliardi di dollari negli USA.
Ma molti osservatori vedono nella strategia di Trump una mossa ad alto rischio. La decisione arriva a ridosso di un altro pacchetto di “dazi reciproci” attesi per il 2 aprile, con l’obiettivo di colpire i Paesi che impongono barriere alle merci americane.
Rally del rame: scorte in fuga verso gli USA
I future sul rame al Comex di New York hanno toccato un nuovo record storico, superando il picco del 2022, mentre il mercato sconta la possibilità di dazi del 25% e l’arresto temporaneo delle spedizioni dal Cile.
Da gennaio, i prezzi americani del rame sono saliti del 29%, allargando in modo senza precedenti il divario con il benchmark globale del London Metal Exchange.
Intanto, circa 500.000 tonnellate di rame stanno viaggiando verso gli USA, nel tentativo di anticipare le imposte. Il resto del mondo potrebbe trovarsi a corto di scorte, con il rischio di un’impennata dei prezzi a livello globale.
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